Ossessioni incontrollabili. Compulsioni irrinunciabili.
L’oggetto psichico cambia di volta in volta nome e forma. Non la sostanza. Sono estenuata, ma mi è impossibile farne a meno.
Qualcuno parla di sintomi egodistonici, qualcun altro si rassegna e basta.
Non
credo di poter affermare con chiarezza che la mia sia una patologia
conclamata; sicuramente è un accartocciarsi su se stessi e lasciarsi
trascinare dai vortici, dai temporali, dalle catastrofi naturali che mi
si scatenano dentro, in quello straccio di anima che goffamente cerco di
ignorare.
Continuo a non riconoscere le gesta eroiche che
quotidianamente metto in atto per non naufragare. Mi aggrappo a
qualsiasi forma geometrica mi stia intorno, perdo l’equilibrio fisico e
psichico che prima raccoglievi come fosse un fiore appassito e ormai non
sai più restituirmi. Perdo l’orientamento. E nell’elenco dei
sopravvissuti il mio nome non c’è, non lo vedo da nessuna parte.
Mi abbandono a forze superiori il cui nome è puntualmente preceduto da un’alfa privativa. Tanto per cambiare.
Mi drogo di etimologie, ne sento già l’assuefazione. Paroleparoleparole per rimediare un po’ di quiete. Intuizioni deliranti.
Sfoglierei
interi manuali diagnostici come fossero album di vecchie fotografie per
farti dichiarazioni d’amore e di neutralità. Lo stato di non
belligeranza.
Le guerre mondiali che si derealizzano quando chiudo gli occhi. Si sgretolano, si smaterializzano.
Se
tu fossi solo un intruglio chimico, uno scontro tra neurotrasmettitori,
una dimensione parallela, sarebbe tutto così mostruosamente semplice.
Se
fossi affondato in chissà quale oceano, e non potessi più venire in
superficie. E se le mie compulsioni fossero solo un diversivo, un modo
come un altro per ammazzare il tempo, certo, quello più morboso.
Se
tu non fossi così perfetto, così irrimediabilmente lontano. Se le nostri
fasi rem non dipendessero dalle agenzie interinali che ci contano i
giorni e ci scrivono i necrologi.
Se solo tu fossi ancora il mio apparato vestibolare.
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