L'amore viscerale dei poeti. L'amore straziante, che ti prende da dentro e esplode in ogni gesto. E' come essersi chiesti per anni cosa volessero dire Catullo, Leopardi e Dante, voler entrare nella loro testa, sforzarsi di immaginare cosa provassero esattamente, cosa li spingesse a scegliere una parola più che un'altra, cosa generasse la loro arte, la loro immortalità. E' come se ci si fosse sempre domandati quanto e come quegli uomini devoti e malaticci amassero le loro donne, chiusi nelle loro stanze a concentrarsi sulle rime e a contare le sillabe per esprimere un amore devastante, un massacro di cuori, un incendio di vite cessate prematuramente. Come se si spendesse gran parte della propria esistenza cercando di immedesimarsi in quelle parole che conoscevi a memoria ma che non capivi davvero. Che erano solo parole. Che conoscevi a memoria e non osavi immaginare quanto l'Arietta di Arnaut Daniel potesse essere il vero eccidio. E ti chiedevi come avesse potuto un uomo con la fortuna di essere solo un po' più colto degli altri lasciarsi sopraffare da un tale tripudio che non riusciva a gestire se non parlandone ai posteri. Ai contemporanei che si riducevano a ricchi signori o vescovi o altri intellettuali, ma soprattutto ai posteri. Come disperati che chiedono aiuto in un confessionale o in uno studio psichiatrico scrivendo lettere di un amore così totalizzante da volerlo arginare, per paura che si trasformi in un mare in tempesta, in un disastro naturale.
E nessun labor limae avrebbe potuto conceder loro alcun aggiustamento.
Come essersi incarnati in quei tratti di penna, essersi dissolti in quell'inchiostro che era di un nero perfetto, rendendosi conto di esserci dentro irreversibilmente.
Un iperbolico albero genealogico che ti si insinua nei vasi sanguigni e non lascia vie d'uscita. La vita.
Svegliarsi e sapere di saperlo, di sentire tutto questo, i poeti, nel profondo del tuo ventre, scalpitare come cavalli impazziti, gemere di un furore così glorioso e indissolubile da averli resi eterni. La catastrofe e la cura.
Ed io non sono più solo io, come ti dicevo.
Tanto l'amo di cuore e la desidero,
Che per troppo desío temo di perderla,
Se perdere si può per molto amare.
Io sono Arnaut, che raccolgo il vento.
Sono rimasta senza parole, che meraviglia.
RispondiEliminaChe meraviglia, davvero.
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