16.5.10

Dov'è finito il tuo amore.

Un benessere inaudito ci illuminava le palpebre, mi dormivi sul ventre e il paradiso sarebbe potuto miseramente esplodere da un momento all'altro.
Sapevamo per certo che un giorno tutto questo sarebbe diventato nostro, ma non osavamo metabolizzarlo, perchè in fondo ci accontentiamo di poco.
Sentivo rombare quei motori ansanti sotto le unghie, non si fermavano, insistenti coprivano il cielo di un grigio amorfo e i consigli promozionali ci intimavano la calma.
La telecinesi che abbiamo sempre desiderato, tracce di lutto, attese interminabili, e l'apparato respiratorio continuava a marcire come fosse il suo fine ultimo.
Nell'aria si sentiva biascicare Dov'è il tuo amore.
La nostra storia appuntata sul calendario ci suggeriva che quello era solo l'inizio, e a noi dopotutto sembrava l'unica soluzione, dal momento che il tripudio ingenuo dei nostri animi acerbi non trovava ragion d'essere da nessuna parte.
Ti immaginavo tra la folla con gli occhi rivolti altrove in cerca di un mal di vivere minore.
E i poeti del dopoguerra ci piombavano addosso come meteoriti spente prima del lancio, come fiaccole nei nostri momenti di gloria, che a pensarci bene eravamo noi ad attivare i meccanismi dei corpi celesti.
Le abrasioni sui ventricoli nei momenti opportuni.
I miei denti stretti sembravano non voler proferire parola, inerme, mi avresti diagnosticato la sindrome di Stendhal se avessi potuto. Ti perdevi in gesti bucolici, e così avrei voluto vederti per sempre.
In tempi dissacranti di notti insonni e immense continuavamo a implorarci pietà e ci chiedevamo cosa mai sarebbe successo se avessimo perso il fiato proprio in quell'istante.
E mantenevo lo sguardo fisso sulle mie ginocchia impure, "non saremo mai nobili" bisbigliavo in un timido sussurro che sarebbe diventato fuoco tra le mie labbra rosse, carbone ardente che ingoiavo a stento.
Scrutavamo le nostre ombre per assicurarci che fosse tutto vero, sebbene sapessimo che i prigionieri delle caverne platoniche ci avrebbero universalmente demoralizzati.
Momenti e i loro occhi scarnificati.
Cosa ne sarebbe di Catullo se gli astri lo scaraventassero in questo secolo di fango e nevrosi? E cosa delle sue perversioni furenti e dei sanguinosi amori? Cosa degli sputi di Bukowski, delle donne oscene negli anfratti di Parigi, dei discorsi sinuosi dei marinai? Il languore delle nostre cicatrici.
E per un attimo pensai di sfiorare la libertà.

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