24.4.10

Iperbolicamente ridevi.

Chi ha deciso poi che la speranza debba essere verde. Ti parlavo delle visioni del paradiso, delle manie suicide, dei quadri. Le sigarette accese sulle corde di un egocentrico pianoforte a coda le ho del tutto dimenticate.
Ci chiedevamo cosa fosse quella musica improbabile sottoterra, come la libreria a colori e la mia spiccata capacit?nbsp; di notare i particolari molto prima dei generali.
Se non scrivo è grazie a te, ma adesso immagino di dover ricominciare. Grazie a te.
Mentre mi stupivo davanti ai primi sintomi delle tue macroespressioni statuarie non riuscivo a smettere di sgolarmi. Non sono sorda: è che penso troppo, diagnosticavo.
Vedevo il mare anche quando non c'era, analizzavo la pressione della matita contro le leggi fisiche inchiodate alla memoria senza una ragione adeguata, ho intuito quella specie di architettura che odora di cemento armato sotto i suoi occhiali.
Ti accarezzavo i polsi per entrarti nel cuore. Immersa in volti sconosciuti la follia.
E assuefarsi all'attesa e alle associazioni poco raccomandabili dei tassisti e dei clandestini. Era una cascata di perle fuse il tuo amore di libertino.
Negli scompartimenti delle metropolitane si ballava davvero, le sirene della polizia suonavano a festa, mi si contraevano i muscoli in segno di gratitudine, e tu iperbolicamente ridevi.
Andavo convincendomi che la fisiognomica non fosse poi così dogmatica, ma subito dopo mi proponevo a bassa voce l'idea dei pregiudizi innati ed inquinati.
Eravamo tutti infetti da quella logica cancerogena che ci ostruiva la vista, ma riuscivo ancora a tenere le palpebre adeguatamente aperte per ammirare la tua ontogenesi.
Poi mi servivo dell'esagerazione per far passare inosservata la mia incapacit?nbsp; di dirti anch'io. Gli spaccacuori imperturbabili.
E la sua poesia maledetta vegliava su di noi.

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