21.2.10

La scusa del corallo

Un flusso di coscienza piuttosto visionario, non necessariamente poetico. Più nello stile di John Dorian. Dovrebbe vagamente suggerire qualcosa come, ecco, qualcosa di colorato. Un monologo interiore ininterrotto, qualcosa come le finestre che sbattono la notte del tuo compleanno e non ti fanno sentire nient'altro. Le rime. Le parole dei film che sono sempre quelle giuste al momento giusto, col tono di voce giusto, con lo sguardo giusto, e con la persona giusta. Con una morale, giusta anche quella naturalmente. I film a lieto fine. Nessuno verrà mai a dirti che poi quei due lì, cinque o sei giorni dopo si sarebbero lasciati miseramente, che il loro adorabile cagnolino avrebbe conservato negli occhi un po' di quel loro attaccamento insicuro-evitante appena prima esser distrattamente abbandonato in autostrada, e che il loro bambino avrebbe dovuto combattere con un'infanzia terribile e un'adolescenza ancora peggio. I film finiscono sempre al momento giusto. Tutto è giusto nei film. Tutti sanno la verità, perché la scrivono su pezzi di carta che accidentalmente lasciano incustoditi, perché si confidano con persone che accidentalmente vanno a confidare la prima confidenza al diretto interessato, perché nonostante tutto, nei film si perdonano. Anche se si sono presi per il culo per i cento minuti precedenti. Nei film riescono miracolosamente a superare ogni ostacolo. Si dicono cose belle. A volte anche nella realtà si urlano cose belle dal balcone. O al Grande Fratello. Quando il gioco si fa duro. Comincia la pubblicità. I duri si disidratano e si fanno graffiare i polsi dai chihuahua. E ti vengo a cercare con la B che mi dà un senso di sicurezza. La B sorprendentemente materna. Il giuoco delle parti. Ci aggiustavamo reciprocamente i ricordi con canzoni d'altri tempi nella nostra mutua regolazione onomatopeica. La candela, la falena e l'alcol etilico che le circostanze puntualmente richiedono - come fiori regalati a Maggio e restituiti in Novembre, peraltro. Fallivo nel riconoscere quegli stati affettivi che più si confacevano alla tua persona, e ti lasciavo affogare in oceani di dietrologia, giusto per assicurarmi che ogni particolare fosse tratto da una storia vera. E non lo era nessuno. Nessuno. Le canzoni che si insinuano lentamente nei campi magnetici e aspettano solo di esplodere al momento opportuno. L’umorismo politicamente scorretto del sole che ride, ti saluta e se ne va in una fantasmagoria sociale di chi corre instancabilmente verso il mare. Indefesso. Ciao ciao. E poi la neve. La neve che tarda ad arrivare, quasi come ogni marito che si rispetti. Era giusto andato a comprare le sigarette, forse c'era fila. La fila per agonizzare. Emancipandoci da uno stato di effimera divinità, col rischio di sbagliare direzione e vagare invano per poi ritrovarsi ancora una volta davanti a cattedrali che non dimenticano mai, di non riuscire a discriminare l'utile dal dilettevole e gli usi dagli abusi di consapevolezza cronica, di perdersi irreversibilmente nelle memorie di anacoreti troppo poco abili. Dina e Clarenza suonavano con insistenza le campane, la colomba forsennata tracciava il perimetro per conto di geometri e architetti fedeli e fiduciosi, i vecchi inseguivano i giovani che inseguivano i bambini che scappavano dalla morte, in una fiera dell'ovest che non passa mai di moda, e ai tempi, per vincere la guerra, bastava una lettera chiusa con cura da un ciuffo di capelli neri, perchè doveva necessariamente trattarsi di capelli neri, di un nero corvino che luccica al sole. Luccica. Orione li stava ad ascoltare.

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