25.1.10

Gli occhi troppo belli

Cercavo le parole giuste per dire a me stessa che se avessi tenuto ancora un minimo a me avresti fatto in modo di morire. Mi intrattenevo leggendo scritte ciniche sulle porte dei bagni pubblici mentre aspettavo che qualcuno mi obbligasse a ridere. Invece di dormire. Avrei voluto cambiare sesso, svegliarmi e accorgermi di colpo di non essere fisicamente spalancata al mondo. Psicologicamente non lo ero mai stata abbastanza. Oppure avrei voluto leggere nel pensiero della gente, dal momento che farsi uscire di bocca la verità non era un'abitudine ben radicata. Mi sarei accontentata di leggere le microespressioni, Paul Ekman ci era riuscito. Non si parlava, se non per dare spazio a frasi puramente di circostanza, quelle che si dicono agli sconosciuti in tram per scongiurare l'attesa. Finisci sempre per innamorartene subito dopo averli visti passare. Parlavamo e non dicevamo niente. Mi dispiaceva. Le sentivo quelle parole, mi chiedevo cosa, esattamente, stessi cercando di fare, come se quell'idiota del tuo attore preferito della tua soap preferita stesse mandando tutto a puttane per un pelo di elefante. Ti innervosisci, è inevitabile, e infatti mi innervosivo, nonostante la voce e tutto il resto del corpo fossero miei. Avrei voluto adottare degli atteggiamenti leggeri e di poco conto per non soffrire altrimenti. Ma forse non era il caso. Ci rinfrescavamo le idee dalle fondamenta. E avevo le gambe e le mani gelide, ma ero felice. Sentivo il gusto di scoprirmi paralizzata e in compagnia, non avrei dovuto desiderare altro. Per orrori di calcolo non ci bastavamo, ma abbiamo deciso di tentare con un entusiasmo tanto infantile quando la nostra voce quando parlavamo di noi. A volte anche il pianoforte riusciva ad infastidirmi, era assurdo. Avevo distrutto un futuro perfetto per capriccio, e rimpiangevo il fatto che nessuno dall'alto mi avesse costretta a continuare. Non era poi neanche troppo alto, insomma, un paio di centimetri in più per un attaccamento evitante in omaggio, neanche il peggiore. Due rose rosse e una birra. Speravo di provocare in lei quei tratti fisiologici universali tipici della sorpresa dicendole che avevo più probabilità di crescere con traumi e disturbi psicologici di un orfano. E invece no. Era a conoscenza di tutto, eppure non sentiva la necessità di smettere di ostentare orgoglio, fierezza ed egoismo. Si lamentava, quasi per giustificarsi, prevedendo la mia reazione da figliol prodiga in castelli inargentati. Ci chiedevano se fossimo maggiorenni, e per un attimo ne ho dubitato anch'io. Bevevamo in apnea fino a smascherarci, ed avevamo gli occhi troppo belli.

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