8.1.10

I cult mi mettevano in soggezione

Ero eccessivamente truccata quando capii che le rose ingiallite su un pacco di sigarette qualunque non bastavano a rendere meno effimera la danza informe di un ammasso esanime di corpi fragili conseguentemente drogati. Avevo deciso di fare una lista di canzoni da ascoltare nel momento più appropriato, con la musica e le parole giuste, perché certe canzoni puoi ascoltarle solo in certi momenti, e non in altri. Pensavo che dipendesse dal bisogno di sentirsi uguali al mondo circostante, in modo piuttosto reciproco, e una volta tanto avevo l'impressione di scegliere. Ero anche fermamente convinta di dover restare lì a lungo, con quei vestiti, con quei profumi, e con gli oggetti disposti in un solo ed unico ordine. Quello. Non avevo dubbi, e non mi aveva mai sfiorata l'idea di dover cambiare, di dover capire che in fondo bastava che la porta fosse solo un po' più aperta, e che fuori tirasse un po' di vento per far cadere quel che restava del filtro di una sigaretta fumata troppo avidamente, e così quell'ordine era ormai passato, superato, modificato irreversibilmente. Il tutto riusciva quasi ad equilibrarsi in un modo che non ho ancora scoperto. Cercavo di ricordare qualunque cosa mi passasse per la testa, ibernarla, far sì che durasse nel tempo, impossessarmene come se non mi appartenesse già. E non mi apparteneva davvero, non finché non l'avrei ricordata. Ma quando ci avrei ripensato successivamente non avrei ottenuto nulla di nuovo e pregnante come quei giudizi sintetici a priori di cui si parla tanto, quindi l'unica cosa da fare era dimenticare. Partorire pensieri e soffocarli, o abortirli e saltare ogni altro passaggio. Era una strana pratica, ma non riuscivo a smettere. I cult mi mettevano in soggezione. Se un film è cult è necessario che tu lo veda almeno una volta nella vita, e se non lo fai non sei degno di esistere. Se è cult vuol dire che merita sicuramente di esser visto e rivisto, e tutti ne parlano come se fosse una platonica idea innata, iniettata dalla gigantesca mano di un'infermiera divina nel dna di tutti, senza discriminazione alcuna. Così anche per musica e libri e ogni genere di prodotto culturale che sia accuratamente approvato ed omologato. Avevo il vizio della collezione. Mi piaceva conservare cose dello stesso genere e ammucchiarle per farle sembrare di più. Il genere era quasi sempre legato a qualcosa di fortemente nostalgico ed evocativo: incensi dal profumo troppo dolce, foto nascoste doverosamente, monetine, penne che avevano visto evaporare il loro inchiostro secoli prima. Roba del tutto inutile, ma mi legavo spaventosamente agli oggetti. Loro non se ne andavano, e se non erano di vetro non si distruggevano in mille pezzi cadendo. Non ero neanche troppo attratta dall'idea del futuro, di come sarebbe stato. Non ero una di quelli che si chiedevano continuamente cos'avrebbero fatto da grandi, chi avrebbero sposato, quanti figli avrebbero avuto e in quale modo sarebbero morti. Alcuni di loro erano sicuri della propria previsione, e in qualche caso, devo dire, ci avevano azzeccato. Io non ero così. Non ho mai avuto le idee chiare abbastanza da sapere cos'ero, figuriamoci se mi sarebbe potuto passare per la testa cosa sarei stata in futuro, ci sarebbe voluto un miracolo come minimo. E poi ero troppo volubile, cambiavo età e nome ogni giorno, a volte cambiavo sesso, non mi importava davvero di essere me, sarei potuta essere chiunque altro in qualunque momento, per me sarebbe stata la stessa cosa. Certo, a volte mi sorprendevo guardando le pupille di chi non era in grado di capire quale fosse la differenza tra avere e desiderare. Non avrei voluto guardare lo specchio e vedere i loro capelli perfettamente intrecciati, le loro labbra rosa da ciliegio assiderato, o i loro nasi perfetti. Dicevano che non mi importasse di nulla, che mi sarebbe potuto crollare il mondo addosso senza che mi voltassi per accertarmi delle sorti altrui, e io mi impegnavo per non deluderli. Ad ogni modo, avevo anche altri vizi. Il fumo, l'alcol, la musica e tutto ciò che avesse a che fare con l’anormalità. Non che io fossi anormale. Mi piaceva credere che non tutto fosse perfettamente uguale a se stesso, che non tutti gli organismi funzionassero tanto bene da non impazzire, solo perché non erano tutti. Mi piaceva l’idea di unicità, e se tutti fossero stati unici non lo sarebbe stato più nessuno. Proprio quando avevo trovato la canzone adatta al momento, mi resi conto che mi erano rimasti addosso un po’ di malato di cuore e un po’ di chimico. Uno morto d’amore, l’altro senza. Francis Turner, il cardiopatico, aveva folti capelli bianchi, o quantomeno brizzolati, nonostante avesse poco più di trent’anni. Non amava particolarmente parlare, non incontrava molta gente, era specializzato in ascolto, lui. Sorridendo gli si vedevano delle rughe attorno agli occhi, ma non aveva l’aria particolarmente stanca. Era una sorta di Labrador timido che aspettava accucciato dietro la porta che un uomo qualunque gli lanciasse un bastone da afferrare e riportare indietro con tutta la diligenza che gli toccava portarsi addosso come un dono scartato per sbaglio. E un giorno qualunque, per un motivo qualunque, Francis aveva incontrato lei, la sua Mary fatale, il motivo per cui la sua vita non avrebbe avuto più bisogno di continuare, perché se fosse andata avanti avrebbe sicuramente avuto un risvolto inopportuno, come nei libri che abbondano in futili e vacui capitoli con cui nessun lettore vorrebbe avere a che fare. Come questo. Ebbene Mary lo aveva baciato, per prima, per ultima, lei lo aveva baciato. Lui non aveva mai capito cosa significasse davvero, sebbene qualcuno gliene avesse parlato distrattamente, e non sapeva che sarebbe stato impossibile raccontarlo a sua volta. Come la morte, sulle labbra di tutti, per quanto nessuno l’abbia mai incontrata. Quel giorno Francis aveva l’amore e la morte sulle labbra, in un legame indissolubile. Trainor, il chimico, aveva i capelli neri, gli occhi neri, le sopracciglia nere, gli abiti neri, ma non era ciò che nelle favole si definirebbe ‘cattivo’. Con tutte le probabilità aveva avuto mille di quei baci, e nessuno gli aveva fatto esplodere il cuore, nessuno di loro gli aveva fatto saltare l’anima. L’amore. La morte. Cellule che si aggregano e disgregano come il sale che si scioglie nell’acqua e la carta che diventa cenere. Era un uomo cauto, uno di quelli che per evitare di cadere non si alzano mai dalla sedia. Come quell’uomo che aveva chiesto ad un’indovina di predirgli cos’avesse riservato a lui il destino. “Un cavallo ti ucciderà” aveva risposto lei. Lui, naturalmente, passò la vita lontano da ogni tipo di animale che avesse quattro zoccoli, e per sicurezza si era costretto alla clausura su una comoda poltrona marrone. “Così non morirò mai”, pensava ogni giorno, accarezzandosi le mani per rassicurarsi. “Così non morirò mai”, ed era così intento a non morire che non si era mai accorto che il quadro che gli avrebbe fracassato il cranio era il dipinto di un elegantissimo, immobile, cavallo. Mi erano rimasti addosso un po’ di chimico, un po’ di malato di cuore, e stavano bene insieme.

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